Terra di conquiste
Il primo insediamento umano nella Valle di Barka sembra risalire all’8.000 a.C. Si crede che le popolazioni qui insediate fossero imparentate con i pigmei dell’Africa centrale. Dopo migliaia di anni di scambi e mescolanze etniche, le popolazioni della zona stabilirono relazioni commerciali con i gruppi etnici vicini. Il potente regno di Aksum, insediato nel territorio che oggi corrisponde al nord dell’Etiopia, iniziò a far sentire la sua influenza nel I secolo d.C. e si servì del porto di Adulis, oggi in Eritrea, per il commercio marittimo di gran parte delle sue merci. Gli eritrei non solo gestivano il commercio estero degli aksumiti, ma commerciavano anche loro prodotti, come la pietra vulcanica, l’ossidiana (molto richiesta nel settore dell’oreficeria) e i gusci di tartaruga, di cui era ricco il Mar Rosso. Il cristianesimo, giunto nel paese con il naufragio di alcuni mercanti siriani cristiani, si estese velocemente fino a diventare la religione principale, esercitando una profonda influenza sullo sviluppo della cultura eritrea. Il declino della civiltà aksumita cominciò nel VII secolo, quando gli arabiiniziarono a dominare il commercio sul Mar Rosso e l’islam iniziò a diffondersi nell’Arcipelago Dahlak e su parte delle coste della terraferma. Nel frattempo le tribù vicine, tra le quali i Beja, diedero inizio ad emigrazioni di massa verso l’entroterra. Il porto eritreo costituiva un’allettante porta di ingresso per il commercio sul Mar Rosso: come era prevedibile, nel XVI secolo i turchi presero possesso di tutta la costa e la dominarono per i successivi 300 anni. Durante il XIX secolo l’Egitto, prendendo esempio dalla politica dei turchi, tentò di invadere i territori pianeggianti occidentali dell’Eritrea e in parte dell’Etiopia e del Sudan. Il re etiope Yohannes, sentendosi minacciato, reagì dichiarando guerra e sconfiggendo l’esercito egiziano. Purtroppo la tattica usata non funzionò con gli invasori successivi, gli italiani che, rimasti a guardare mentre i francesi mettevano le mani su Gibuti e mentre gli inglesi si impossessavano di lembi di territorio in Yemen e in Somalia, intrapresero nel 1882 una politica di colonizzazione nell’Eritrea meridionale. Yohannes ebbe paura della politica espansionista degli europei e nel 1887 affrontò gli italiani in battaglia. Alla sua morte, avvenuta due anni dopo in battaglia, il successivo imperatore etiope, Menelik, firmò un patto nel quale cedette agli italiani la regione che poi diventò l’Eritrea.
Da colonia italiana a territorio britannico
L’inizio dell’occupazione tricolore si ebbe in realtà nel novembre del 1879 con il padre lazzarista Giuseppe Sapeto che, per conto della società di navigazione Rubattino di Genova, avviò le trattative per la cessione della Baia di Assab al Governo italiano. Nel 1869 fu siglato con il sultano locale l’accordo per l’acquisizione della baia da parte dell’armatore Raffaele Rubattino, per farne un porto di servizio per le sue navi. Il governo egiziano contestò l’acquisizione e ne rivendicò il possesso: da qui seguì una lunga controversia che si concluse solo nel 1882. Nel 1889 fu stipulato il trattato di Uccialli fra Italia e Etiopia, in cui l’Eritrea fu ufficialmente dichiarata colonia italiana. L’Italia continuò la sua espansione verso l’entroterra ma nel 1896 fu bloccata dalla sconfitta ad Adua contro gli etiopi. Con il trattato di pace di Addis Abeba, l’Italia riconobbe l’indipendenza dell’impero d’Abissinia e quest’ultimo riconobbe la colonia italiana d’Eritrea. Durante il dominio italiano, specie negli anni Trenta, l’Eritrea divenne la colonia più industrializzata dell’Africa, ma le popolazioni locali, spogliate della maggior parte delle terre e costrette a subire il giogo della colonizzazione, pagavano caro il prezzo dello sviluppo. Il dominio italiano iniziò a declinare quando, all’inizio del secondo conflitto mondiale, l’Italia dichiarò guerra all’Inghilterra. Circa un anno più tardi, Asmara si arrese e l’Eritrea divenne un territorio sotto mandato britannico, anche se la vecchia amministrazione italiana continuò a occuparsi della colonia fino al termine della guerra, nel 1945. Negli anni successivi, l’Eritrea attraversò difficoltà economiche, dovute alla decisione dell’amministrazione britannica di rimuovere e smantellare il più possibile le infrastrutture locali per portarle in Inghilterra. Le cose peggiorarono dopo la risoluzione delle Nazioni Unite del 1950, che fece dell’Eritrea la quattordicesima provincia dell’Etiopia.
Eritrea o Etiopia?
Il 20 maggio 1960 l’Eritrea fu trasformata in una provincia amministrativa dell’impero di Addis Abeba. L’unione non fu mai felice. Con un’economia dissanguata, dirigenti politici stranieri e una nuova lingua nazionale (l’amarico che sostituì il tigrino nelle scuole), molto rapidamente l’Eritrea si ritrovò sotto un vero e proprio giogo culturale. Come reazione immediata, nel 1961 nacque il Fronte di Liberazione Eritreo (FLE) per ottenere l’indipendenza nazionale. Iniziò una delle più lunghe guerre africane del XX secolo, che durò più di trent’anni e costò la vita a più di 70.000 persone. La vittoria delle forze eritree, nel 1991, sorprese non solo perché segnò il termine di un dramma umano, ma soprattutto perché l’Eritrea riuscì a sconfiggere l’esercito etiope, potente e sostenuto da americani e russi.
Indipendenza… armata
La lotta per l’indipendenza ebbe fine nel 1991, quando il Fronte di Liberazione del Popolo Eritreo (FLPE) scacciò l’esercito etiope e si unì ad altri movimenti di resistenza per rovesciare la dittatura delDerg, il governo militare di ispirazione comunista in carica ad Addis Abeba. Due anni dopo venne indetto un referendum sotto l’egida delle Nazioni Unite (la missione denominata UNOVER). Al suffragio universale parteciparono sia le popolazioni residenti nel paese che quelle della diaspora, per decidere la separazione o meno dall’Eritrea. Il 99,81% degli elettori votarono per il sì, a cui seguì la dichiarazione ufficiale il 24 maggio 1993. Il leader dell’EPLF, Isaias Afewerki, divenne il Primo Presidente provvisorio e il Fronte di Liberazione del Popolo Eritreo, ribattezzato Fronte Popolare per la Democrazia e la Giustizia (PFDJ), diede vita al primo governo. L’indipendenza non pose però fine agliscontri con l’Etiopia, sia a causa dell’adozione da parte degli eritrei di una nuova moneta – il nafka – al posto del vecchio birr etiopico, sia per accordi commerciali poco equi, sia infine per un lembo di terra di 390 kmq sul confine chiamato il ‘Triangolo di Yirga’, conosciuto anche come Badme, dal nome della città più importante di questa regione. Quest’ultima questione, che sembra legata a vecchia ruggine, riaprì le ostilità tra i due paesi, con piena soddisfazione di Somalia e Gibuti. Un accordo di cessate il fuoco fu firmato nel giugno del 2000 (gli Accordi di Algeri), con la creazione di una zona tampone nell’area di confine, sottoposta al controllo delle forze di pace ONU, e l’impegno dei due paesi a definire i confini in modo definitivo. Nell’aprile del 2002 la Commissione dell’Aia ha esercitato la propria pressione e la costruzione dei posti di confine è iniziata nel maggio 2003. Le relazioni con l’Etiopia resteranno tese fino a quando la demarcazione non sarà completata. Tuttora la questione dei confini rimane irrisolta.
Il paese oggi
L’Eritrea è un paese povero, con un’economia basata principalmente su un’agricoltura di sostentamento, sull’allevamento di ovini e sulla pesca. Le poche industrie presenti nel paese sono situate nella capitale, Asmara. Il paese appartiene dal 1993 all’Autorità intergovernativa per lo sviluppo, organizzazione politico-commerciale formata dai paesi del Corno d’Africa. La bilancia commerciale è ampiamente in passivo. L’Eritrea esporta, verso l’Etiopia e altri paesi della regione, modesti quantitativi di prodotti locali, mentre deve importare combustibili, macchinari, manufatti, alimenti. L’Italia è il secondo partner commerciale, dopo l’Arabia Saudita. La grave situazione economica in cui versa il paese è conseguenza del conflitto con l’Etiopia, di cicli di carestie e siccitàe di una politica autoritaria, con gravi forme di corruzione e debolezze gestionali. Oggi in Eritrea sono presenti 32.000 sfollati interni (persone costrette a lasciare i propri villaggi e spostarsi in altre regioni per cercare di sopravvivere a guerre, fame, indigenza). Sono moltissimi anche i rifugiati che hanno abbandonato il paese e vivono all’estero in campi profughi o in difficili condizioni nelle città africane, americane o europee. Inoltre, a causa della guerra gran parte della rete stradale che nel ‘99 si estendeva per oltre 4.000 chilometri non è stata ancora ricostruita: in queste condizioni l’agricoltura negli altopiani e la pastorizia lungo la costa e nelle pianure restano per la maggior parte degli eritrei le uniche fonti di sussistenza. Importanti giacimenti di potassio, oro, ferro e petrolio, vista la difficile situazione economica, sono sfruttati in maniera marginale e per lo più da multinazionali straniere. Oggi il sistema politico eritreo si basa sulla legittimazione di un partito unico, il PFDJ. Non è permessa l’organizzazione di altri partiti, contrariamente a quanto previsto dalla Costituzione del 1997, mai entrata in vigore. Le elezioni nazionali, ripetutamente annunciate, sono state sempre cancellate. Il presidente Afewerki mantiene la carica di presidente del governo provvisorio dal 1993, rifiutando libere elezioni e alimentando il suo regime militare. Sebbene siano stati fatti molti passi avanti verso il riconoscimento dei diritti delle donne, nel paese vi è ancora una forte tendenza conservatrice, che impedisce l’accettazione dell’uguaglianza tra i sessi.
Tradizioni
A rendere affascinante l’Eritrea è anche la varietà dei suoi abitanti: sono circa 5 milioni e mezzo, per un terzo nomadi o semi-nomadi, divisi in nove gruppi etnici: tigrini (il gruppo più numeroso), afar, bilen, hedareb, kunama, nara, rashaida, saho e tigré. Viene data grande importanza alle forme artistiche di stampo tribale. Canti, balli e ritmi tipici di ogni etnia sono alla base di ogni manifestazione sociale, celebrazione di feste familiari, nascite, matrimoni e durante le feste religiose e culturali, scandita da strumenti a fiato a percussione e pizzicati prodotti artigianalmente come il krare il wata, entrambi derivati dagli strumenti tradizionali etiopici. È vasta anche la varietà delle musiche tradizionali, che cambiano da regione in regione: ogni gruppo etnico ha i suoi ritmi, suoni e danze. Tra i cantanti e i musicisti più rinomati emergono Osman Abdel Rahin, Samuel Berhane e Berekhet Mangisteab.