Il braccio di ferro tra giganti europei
Se Marco Polo riportava nei suoi diari l’esistenza del Madagascar, noto anche ai cartografi arabi, i primi europei – portoghesi, olandesi, inglesi – giunsero da queste parti solo nel 1500. Dal XVII secolo in poi i pirati riuscirono là dove i governi del Vecchio Continente avevano fallito, insediando basi permanenti sull’isola ed arricchendola di bottini, tesori sepolti e cromosomi, soprattutto intorno all’Île Saint Marie, culla dei primi regni malgasci e teatro di lotte di potere. Alla fine del XVIII secolo, ilclan Merina prese il dominio. Nel periodo in cui la pirateria nei Caraibi veniva contrastata, oltre un migliaio tra inglesi, francesi, portoghesi, olandesi, americani e di altre nazionalità avevano eletto la costa orientale del Madagascar come loro porto ideale per colpire le navi che superavano il Capo di Buona Speranza. Se nel 1820 gli inglesi firmarono un trattato che riconosceva l’indipendenza del Madagascar sotto i Merina, l’influenza di Londra rimase fortemente radicata per buona parte del XX secolo. Poi fu la volta dei francesi, che invasero l’isola attaccando le coste occidentali nel 1895 ed introdussero un’amministrazione coloniale caratterizzata da un regime fiscale estremamente repressivo e dalla legittimazione dei lavori forzati. Durante la seconda guerra mondiale l’amministrazione di Parigi ripudiò il governo collaborazionista di Vichy, dando ai britannici l’opportunità di invadere l’isola, con la scusa di bloccare il Giappone. Nel 1943 gli inglesi restituirono la terra dei lemuri alla Francia liberata di De Gaulle. Negli anni ’50 nacquero diversi partiti politici indigeni e molti malgasci, nati e cresciuti sotto l’influenza delle nozioni di ‘liberté’, ‘égalité’ e ‘fraternité’, non essendo più disposti a essere considerati cittadini di serie B nel loro stesso paese, si ribellarono nel 1947. Le vittime civili furono molte (si parla di 80.000), ma la strada per la libertà fu aperta e se nel 1958 il popolo locale votò per diventare una repubblica autonoma all’interno della comunità d’Oltremare francese, nel 1960 l’isola attraversò una tranquilla transizione verso l’indipendenza.
Ratsiraka, la longa manus del Madagascar
L’indipendenza non fu però facile. Philibert Tsiranana, il primo presidente malgascio, attuò una politica sempre più repressiva e, benché appartenesse alla tribù dei Merina (gruppo che, in genere, faceva riferimento all’Unione Sovietica), si rifiutò di aprire un dialogo con le nazioni comuniste. La ferocia con cui soffocò una rivolta scoppiata nel sud del paese nel 1972 segnò l’inizio del suo declino. Un veloce rimescolamento ai vertici dell’esercito e del governo diede origine a un vero e proprio terremoto: con l’avvento dell’ammiraglio Didier Ratsiraka, lo stato e la politica estera malgascia presero la direzione di un socialismo filo-sovietico. Nel 1977 il partito di governo divenne l’unico legalmente riconosciuto e la libertà di stampa fu fortemente ridotta. Le banche e altri importanti comparti furono nazionalizzati senza fornire alcun risarcimento alla popolazione. I pochi francesi rimasti nel paese presero i loro soldi e le loro capacità professionali e se ne tornarono a casa. La pesante crisi finanziaria del 1981-82 costrinse il governo a rallentare le riforme e ad applicare le rigorose misure restrittive richieste dal FMI (Fondo Monetario Internazionale) per l’erogazione di un prestito. Grazie al programma del Fondo, l’economia si risollevò in parte per poi, subito dopo, crollare un’altra volta. I sospetti di brogli nelle elezioni del marzo 1989, che decretarono una nuova vittoria di Ratsiraka, provocarono numerose rivolte nel paese. Altre ne scoppiarono nel 1991, quando alcuni partecipanti a una dimostrazione pacifica furono uccisi dalle guardie presidenziali scelte (nord-coreane) di fronte allo sfarzoso nuovo palazzo del presidente-ammiraglio (costruito con aiuti nord-coreani). I primi anni ’90 furono caratterizzati da tensioni sociali. Il presidente modificò gradualmente la propria politica, fino a indire le prime elezioni multi-partitiche nel 1993, alternandosi alla guida del paese con il suo principale rivale, Albert Zafon, fino al 2001. La crescente opposizione a Ratsiraka rese popolare Marc Ravalomanana, il sindaco di Antananarivo, il cui consenso venne legittimato nel dicembre del 2001, tra accuse di brogli e scontri – anche armati- nel paese. Ma nemmeno questa legislatura avrà buon esito. Il 17 marzo 2009 è nuovamente colpo di stato: il trentaquattrenne leader dell’opposizione, Andry Rajoelina, si pone al dominio dell’esercito e assedia per poi conquistare il palazzo presidenziale, costringendo il presidente a dimettersi e acquisendo in toto il potere. Tutte le più importanti organizzazioni internazionali, a partire dall’Unione Europea, l’Unione Africana e l’ONU si oppongono al rovesciamento politico, ottenuto tramite la forza, ma ancora oggi Rajoelina è alla guida dell’isola.
Il presente difficile, anche se si pratica il fady
Il paese versa in una drammatica crisi dopo aver subito sei mesi di paralisi di ogni attività economica, aggravata per di più dal blocco dei trasporti a causa della mancanza di carburante e dei danni provocati ai ponti e alla rete stradale. Tempeste tropicali, il ciclone Kesiny, lo tsunami del 2004 e la siccità hanno fatto il resto. L’emergenza del paese è data soprattutto dalla malnutrizione, in preoccupante aumento. Si soffre di tubercolosi e di lebbra, la durata media della vita è diminuita e il75% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà. Con le sue affascinanti culture tribali, i cerimoniali e gli interessanti fady (divieti che gli antenati impongono ai vivi), la popolazione cerca di darsi forza per affrontare le difficoltà quotidiane. Alcuni di questi “tabù” si applicano a tutti, altri solo a certe categorie di persone (per esempio le donne o i membri di un certo clan), altri ancora riguardano una persona in particolare. I fomba sono invece determinati obblighi, come quello di versare qualche goccia per terra prima di bere alcolici, che richiamano usanze tradizionali, anche in questo caso attribuite agli antenati, che devono essere osservate per non incorrere nella loro punizione.
Si danza e ride con il valiha e il kabary
Gran parte della musica contemporanea e tradizionale del Madagascar si impernia su passi di danza, con influenze indonesiane e africano-continentali, soprattutto dal Kenya. I ritmi si accompagnano a fischi e a strumenti come il flauto e il valiha, particolarissimo strumento a 28 corde somigliante a un fagotto che si suona quasi come un’arpa. Molto popolari anche il lokanga voatavo, a corde, e alcuni tipi di chitarra come il kabosy, simile all’hawaiano ukulele.
La cittadina di Fianarantsoa è recentemente diventata la capitale letteraria del paese, in cui vivono numerosi romanzieri e scrittori. Se da un lato la letteratura malgascia non si sviluppò prima degli anni ’30 e ’40, l’arte oratoria tradizionale – chiamata kabary dalle antiche assemblee politiche, in cui ogni oratore parlava a turno – è più antica ed è ancora oggi molto diffusa come forma di intrattenimento.
Circa il 50% della popolazione segue religioni tradizionali, anche i cristiani (41%) sono soliti praticare con devozione riti animisti. Le persone locali guardano alla morte con rispetto e riverenza, conferendo all’aldilà la stessa importanza che si dà al presente. Nella vita dei vivi, i morti svolgono un ruolo molto più importante che in qualsiasi altra cultura. Chi piange un defunto pratica elaborati riti funebri e, se ritiene che il morto sia scontento, ne aggiunge ulteriori per soddisfarlo. Il più famoso di questi è ilfamadihana, o rovesciamento delle ossa, durante il quale la salma viene riesumata per intrattenerla e parlarle, per poi seppellirla in un nuovo sudario insieme a nuovi doni.